Cercasi urgemente: ricordi
Simon Koechlin
18th December 2024

Troppo spesso il cervello umano memorizza i ricordi in modo errato o li fa cadere nell’oblio. Come fanno i ricercatori del PNR 80 «Covid-19 e società» ad accertarsi che le persone intervistate forniscano loro informazioni il più possibile corrette e non sfalsate sulla pandemia? Il contributo che segue risponde a questa domanda e inaugura la nuova serie sul PNR 80 su DeFacto.
Non ci si può fidare della nostra memoria. Confondiamo compleanni e nomi, non sappiamo più dove abbiamo messo il portafoglio e talvolta crediamo di ricordare cose che in realtà non sono mai accadute. Tutto ciò ha conseguenze non solo per noi e per chi ci circonda, ma anche per la ricerca. In psicologia e nelle scienze sociali, i ricordi distorti o fasulli rappresentano una sfida nota da tempo.
Per i ricercatori del PNR 80 «Covid-19 e società» si pone la questione di quanto bene le persone ricordino gli avvenimenti e i sentimenti durante la pandemia. «Molti hanno cancellato dalla memoria la pandemia di Covid-19», afferma Alexander Seifert della Scuola universitaria professionale della Svizzera nordoccidentale. Co-responsabile del progetto PNR 80 «Coesione intergenerazionale», Seifert indaga come le persone di diverse generazioni hanno mantenuto i contatti durante la pandemia. «Nel corso delle nostre interviste, a volte le persone dicono di non riuscire quasi più a ricordarselo».
Alcune esperienze rimangono impresse nella memoria meglio di altre. Ad esempio, alcuni intervistati hanno raccontato di idee creative grazie alle quali sono rimasti in contatto malgrado le regole di distanza imposte dalla pandemia, racconta Seifert. «Una signora si incontrava con i conoscenti a chiacchierare attorno a una fontana, dove quest’ultima garantiva le distanze». Altri ciarlavano da una finestra all’altra o dalla finestra alla strada. E gli abitanti di un quartiere hanno organizzato una specie di caccia al tesoro compatibile con le regole imposte dalla pandemia, durante la quale i bambini potevano cercare gli orsacchiotti sui davanzali delle finestre. In molti casi, tuttavia, i ricercatori hanno dovuto “rinfrescare” la memoria dei soggetti intervistati. A tale scopo Seifert e il suo team utilizzano ad esempio delle immagini. «Invitiamo le persone a portare con sé foto di allora e mostriamo loro i manifesti della campagna sul COVID dell’Ufficio federale della sanità pubblica», continua Seifert. «Entrambe le cose possono aiutare a ritornare col pensiero alla situazione di allora».
Abbellire o esagerare?
Lo stesso trucco è stato utilizzato dai ricercatori del progetto PNR 80 «Spazi urbani adatti ai giovani», diretto da Anke Kaschlik dell’Università di scienze applicate di Zurigo (ZHAW). Il progetto esamina l’uso e l’importanza degli spazi pubblici, privati, fisici e virtuali per i giovani in generale e durante la pandemia. Nella percezione dei giovani, i quattro anni dalla pandemia sono ancora una volta un periodo di tempo più lungo che per gli anziani, spiega Kaschlik.
I giovani sono stati intervistati durante laboratori di gruppo nelle scuole. «Il nostro progetto abbraccia l’intera gamma di scuole, dalle scuole professionali ai licei», continua Kaschlik. Già questa ampiezza, con un totale di circa 230 intervistati, offre una certa garanzia di evitare vuoti di memoria nell’intero progetto. Per rinfrescare la memoria, i ricercatori chiedono inoltre ai giovani di dare un’occhiata alle foto da loro scattate all’epoca o ai post pubblicati sui social media. Inoltre, hanno riportato la cronistoria delle misure adottate contro la pandemia; ad esempio, da quando sono stati vietati gli incontri di più di sei persone.
«Questi indizi sono efficaci», racconta Kaschlik. «Per alcuni i ricordi hanno incominciato a venire a galla stimolando anche gli altri nello scambio all’interno del gruppo». Un esempio è quello di due giovani, Rouven e Tatjana. Guardando la cronistoria delle misure adottate nella lotta contro il COVID-19, Rouven ha detto: «Ma certo! È vero, era quando si faceva incetta di ogni genere di cose». Al che anche Tatjana se ne è ricordata e ha aggiunto: «Siamo andati anche noi a prendere un sacco di carta igienica».
Secondo Kaschlik, i laboratori di gruppo hanno un ulteriore vantaggio. Perché le persone non solo dimenticano, ma, consciamente o inconsciamente, inventano, abbelliscono o tabuizzano i ricordi. Ad esempio, se i giovani si sono opposti alle misure durante la pandemia, potrebbero non essere felici di dirlo ai ricercatori, puntualizza Kaschlik. «Ma nel contempo vogliono farsi belli agli occhi dei loro coetanei. Forse così le cose si riequilibrano e alla fine otteniamo dichiarazioni per lo meno realistiche». Inoltre, i ricercatori convalidano i risultati delle loro analisi insieme ai giovani in nuovi workshop.
Il team di ricerca ha inoltre condotto con tre classi scolastiche i cosiddetti «Walking Talks», ossia interviste passeggiando insieme per esempio attraverso parchi o aree dedicate ai giovani. «Questa procedura si è rivelata molto utile per discutere in dettaglio con i giovani di luoghi specifici e delle loro qualità», afferma Anke Kaschlik. «Per i giovani è stato molto più facile esprimersi in loco sulle opportunità e sugli ostacoli all’utilizzo di determinati spazi urbani».
Creare fiducia
Chi è consapevole del rischio di falsificazione dei ricordi può adottare contromisure. Il progetto PNR 80 «Generazione COVID-19» si occupa del benessere dei giovani durante la pandemia. Una parte del progetto consiste in interviste con una trentina di esperti presso amministrazioni o organizzazioni sulle misure politiche adottate all’epoca a sostegno dei giovani. «In questo contesto professionale, il rischio di dimenticare è piuttosto ridotto», afferma la co-responsabile del progetto Núria Sánchez-Mira dell’Università di Neuchâtel. «Invece può capitare che qualcuno voglia dare un’immagine abbellita della propria istituzione».
Per evitarlo, i ricercatori puntano sull’analisi dei fatti: consultano i rapporti sulle misure attuate e nelle interviste vi fanno spesso riferimento. «Inoltre, è importante creare fiducia nelle persone intervistate», dichiara Sánchez-Mira. «Devono sapere che non è nostra intenzione criticare loro o la loro istituzione. Vogliamo trarre insegnamenti per le pandemie future».
Niente paura di argomenti spinosi!
La conoscenza dei fatti e la fiducia sono due aspetti sottolineati anche da Annika Rohrmoser e Gemma García Calderó dell’Università di Basilea. Entrambe sono dottorande nell’ambito del progetto PNR 80 «Prevenire la solitudine» che analizza quanto le persone si siano sentite sole durante la pandemia e quali misure siano state adottate per contrastarla. Uno dei punti chiave delle attività di ricerca sono le conversazioni con una quarantina di persone che hanno provato solitudine durante la pandemia.
I ricercatori preparano queste interviste qualitative con grande meticolosità. Intervistano esperti del settore e Gemma García Calderó prepara un documento riassuntivo di tutti gli studi già esistenti. «Queste conoscenze ci danno la certezza di affrontare gli aspetti importanti e di illustrarli con le domande giuste da diverse parti», spiega. «Questo aiuta a evitare malintesi o a scoprire eventuali contraddizioni nelle risposte».
Proprio il tema della solitudine è oggetto di stigmatizzazione, aggiunge Annika Rohrmoser. «Alcune persone credono che sia colpa loro se si sentono sole e per questo hanno paura di parlarne». Per evitare tabù del genere, è necessario creare un ambiente di dialogo adeguato. «Cerchiamo di mostrare agli intervistati che ognuno di noi ha momenti di solitudine. E che i loro ricordi sono importanti per noi e che non ci sono risposte giuste o sbagliate».
Dati ottenuti da studi longitudinali
I problemi di memoria emergono non solo nelle raccolte di dati qualitativi, ma anche in quelle quantitative, in particolare quando gli avvenimento risalgono a molto tempo addietro. Nel progetto «Coesione intergenerazionale», ad esempio, 1600 persone partecipanti a un sondaggio nazionale devono indicare quante volte hanno avuto contatti con nipoti o nonni in periodi di pandemia e in periodi non pandemici. «Inizialmente volevamo confrontare il periodo precedente la pandemia con quello durante la pandemia», spiega Alexander Seifert. Poiché, tuttavia, ci voleva del tempo prima che il PNR potesse iniziare il suo lavoro, i ricercatori hanno ritenuto che fosse troppo rischioso. Hanno pertanto deciso di confrontare il periodo della pandemia con il presente.
Il progetto «Generazione COVID-19» ha adottato un approccio elegante: per sapere in che modo la pandemia ha influito sul benessere dei giovani, ricorre ai dati del panel delle economie domestiche svizzere, nel quale dal 1999 si interpellano ogni anno circa 10 000 economie domestiche svizzere. «Durante la pandemia c’è stata addirittura un’ulteriore serie di indagini», aggiunge Núria Sánchez-Mira. «Poiché gli intervistati descrivono la loro situazione attuale, la distorsione dei ricordi diminuisce».
Non vi è alcuna garanzia che i ricordi siano corretti, genuini e oggettivi. Ma i ricercatori del PNR 80 sono consapevoli della sfida. Adottano con coerenza diversi metodi e strategie per individuare influenze indesiderate o tendenze distorsive e sono particolarmente cauti nell’interpretare i rispettivi risultati.
Referenze (in inglese):
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NRP 80, research project “Intergenerational cohesion”
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NRP 80, research project “Urban spaces for young people”
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NRP 80, research project “The Covid generation”
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NRP 80, research project “Loneliness prevention”
Immagine: PNR 80